Fabio Fontana

Sono laureato in scienze politiche. Credo nell'empatia e nel progresso. Mi interesso di politica, economia, ambiente e innovazione. Fissato con le serie tv. Seguimi su Twitter @fabiofontana o su www.fabiofontana.it

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Da alcuni anni ormai la politica sta cambiando. In molti paesi occidentali guadagnano sempre più consensi idee, partiti e candidati molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto finora. Nel 2016 abbiamo visto i primi segni tangibili di questa trasformazione: il voto sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump. Due esiti che apparivano fantascienza fino a pochi mesi prima.
Schiere di osservatori, politici e giornalisti hanno tentato di trovare una spiegazione all’emergere di queste forze, spesso definite populiste. In molti hanno puntato il dito contro le bufale e le notizie false diffuse sul web da parte di siti più o meno vicini a questi movimenti. Si è arrivati a parlare di politica della post-verità, in cui i fatti oggettivi passano in secondo piano rispetto alle emozioni e alle convinzioni personali. Le bufale hanno avuto certamente un ruolo, ma l’ascesa del populismo sembra essere spiegata meglio con il crescente risentimento per le élite e per una classe dirigente incapace di affrontare la crisi e il lento ma costante declino delle economie occidentali. Problemi come la globalizzazione e l’immigrazione sono molto sentiti specialmente dalla classe media, che sta vedendo i propri salari restringersi e il lavoro diventare sempre più precario. È proprio la spiegazione economica al populismo che vogliamo approfondire in questo video.

 

Iniziamo il nostro ragionamento partendo da un libro: Postcapitalismo, scritto dal giornalista inglese del Guardian Paul Mason. In questa sede però, la tesi di fondo sostenuta da Mason non ci interessa. Ciò che ci importa è la sua analisi sull’evoluzione dell’economia negli ultimi secoli.
È dato per assodato dagli studiosi che l’economia si muova per cicli della durata di pochi anni: periodi di espansione e di crescita seguiti da periodi di depressione e crisi. È una teoria più minoritaria invece quella per cui questi cicli brevi si inseriscano in cicli più lunghi, della durata di 50-70 anni. Questi ultimi si sviluppano in forma di onde, le cosiddette Onde di Kondrat’ev, dal nome dell’economista russo Nicolaj Kondrat’ev che le ha ipotizzate per primo. Mason mescola la teoria delle onde lunghe con alcuni elementi della tradizione marxista, spiegando che un’onda inizia dopo un periodo turbolento con guerre e rivoluzioni, in cui i capitali si sono accumulati nel settore finanziario e sono state inventate nuove tecnologie che però hanno avuto difficoltà ad affermarsi fino a quel momento. Con l’inizio della fasce ascendente dell’onda, i capitali si riversano nell’economia reale e nascono nuovi modelli di impresa basati proprio su quelle innovazioni incubate nel periodo precedente. Inizia così una fase di prosperità e crescita, in cui risulta accettabile redistribuire la ricchezza verso le fasce più povere della popolazione. Arriva però un momento in cui tutto ciò si interrompe: all’improvviso ci si accorge che le aspettative per un futuro florido come il presente possono essere sbagliate, ci si rende conto che la crescita attesa in molti settori non si verificherà e che i capitali investiti troppo alla leggera non saranno più ripagati. Ci si avvia quindi verso un periodo di incertezza sui mercati, sulle monete e sugli assetti globali. I salari vengono colpiti e lo stato sociale ridimensionato. I capitali ritornano ad affluire verso il mondo della finanza. Le crisi si fanno sempre più frequenti e profonde, spianando la strada a conflitti e guerre. E alla fine un’altra onda prende il sopravvento.

 

Dalla prima rivoluzione industriale, gli economisti individuano quattro o cinque cicli, a seconda dell’interpretazione a cui si fa riferimento. Ogni onda però è diversa dalla precedente: ogni ciclo porta con sé un sistema socio-economico del tutto nuovo. Scrive Mason che “il momento della mutazione è fondamentalmente economico. È l’esaurimento di un’intera struttura – modelli di impresa, insiemi di competenze, mercati, valute, tecnologie – e la sua rapida sostituzione con una struttura nuova”.
Forse è il caso di fare un esempio. Il ciclo in cui ci troviamo ora è iniziato subito dopo la seconda guerra mondiale. Già prima del 1945 erano state compiute invenzioni e scoperte molto importanti, ma il conflitto mondiale causato anche dagli squilibri economici e finanziari precedenti aveva impedito che esprimessero il loro potenziale. Nel dopoguerra si creò da zero un nuovo sistema economico, basato su nuove tecnologie come l’automazione delle fabbriche, nuove fonti energetiche come il petrolio e su un nuovo paradigma economico, costituito dal fortunato connubio di libero mercato e protezione sociale da parte dallo stato. Ciò ha garantito una lunga fase di prosperità. Lo stadio ascendente dell’onda si è concluso nel 1973. La crisi petrolifera ha avviato la fase discendente, in cui i salari hanno smesso di crescere e gli investimenti sono passati dai settori produttivi al mondo della finanza.
Ora, resta da capire un ultimo punto: cosa provoca la fine di un ciclo e l’inizio di un altro? Cosa riscatta l’economia da un lungo periodo di declino e la mette sulla strada di una rinnovata prosperità? Paul Mason cerca la risposta a queste domande nell’azione delle classi sociali. Come abbiamo detto, nella parte calante di un ciclo assistiamo ad un restringimento dei salari e del welfare, quindi la classe media è quella su cui ricade di più il peso della recessione economica. L’apertura di un nuovo ciclo avviene quando questo peso diventa insostenibile, i lavoratori si rivoltano e il sistema è costretto ad una trasformazione radicale. Dice Mason: “lo stato è costretto ad agire: formalizzando nuovi sistemi, incentivando le nuove tecnologie, fornendo capitali e tutele a chi innova”.

 

Perché abbiamo parlato di tutto questo per spiegare l’ascesa del populismo? Perché quello a cui stiamo assistendo è molto simile a quanto previsto dal modello di Mason. A partire dagli anni 80, i salari nei paesi occidentali sono cresciuti molto poco e la ricchezza si è spostata sempre di più verso le rendite e i profitti della fetta più ricca della popolazione. A partire dalla crisi economica del 2008, la classe media ha visto il proprio tenore di vita sprofondare. Molti hanno perso il lavoro e chi l’ha mantenuto ha dovuto accettare condizioni lavorative decisamente più precarie. Le nuove generazioni hanno davanti un futuro che rischia di essere peggiore di quello della generazione precedente.
Per questo molti oggi se la prendono con la globalizzazione e l’immigrazione, che diventano dunque i bersagli preferiti di Trump, dei sostenitori della Brexit e di tutte quelle forze anti-establishment che spuntano come funghi in Europa. Laddove la politica tradizionale sembra aver finito le cartucce senza riuscire a portare un vero cambiamento, gli elettori decidono di dare una chance a chi rappresenta la novità e la rottura col mondo precedente.
Questi nuovi soggetti, tuttavia, non sembrano avere a portata di mano le soluzioni necessarie. Le loro proposte, quando esistono, sono confuse e parziali. Il loro immaginario guarda al passato, si rivolgono ad elettori nostalgici di un mondo che era facile comprendere mentre sono spaventati dalle sfide del presente. Come nei momenti finali di un ciclo, oggi assistiamo a innovazioni straordinarie nei campi di Internet, dell’intelligenza artificiale, della stampa 3D e delle energie rinnovabili. Ma il mondo di oggi non sembra ancora pronto per accoglierle. Inoltre servirà altro tempo prima di poter toccare con mano il loro immenso potenziale. Quindi forse il populismo è solo una fase di passaggio, superata la quale conosceremo l’inizio di un nuovo ciclo e di un nuovo periodo di benessere con prospettive che ancora non possiamo immaginare.

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Se non siete appena tornati da un’isola deserta, già lo sapete: il referendum di domenica 4 dicembre ha respinto a larga maggioranza la riforma della costituzione del governo Renzi. Il “no” ha vinto con quasi il 60% dei consensi contro il 40% del “sì”. Anche l’affluenza è stata più alta delle aspettative: il 65% degli italiani si è recato alle urne, il 68% se escludiamo il voto all’estero. Segno che questo referendum è stato molto sentito.
La conseguenza più immediata del voto sono state le dimissioni di Matteo Renzi, annunciate nella notte dello spoglio e formalizzate la sera di mercoledì 7 dicembre, dopo l’approvazione della legge di bilancio. Si è aperta dunque la crisi di governo. Le dimissioni del presidente del consiglio implicano infatti la fine dell’intero esecutivo. Le decisioni sul da farsi spettano ora al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Quindi, cosa può succedere adesso? Abbiamo davanti tre scenari: le elezioni anticipate, un altro governo guidato da Renzi o un nuovo governo guidato da altri.
La seconda ipotesi rimane molto improbabile: è da mesi che Renzi minaccia le dimissioni in caso di sconfitta al referendum. Quindi è difficile che accetti di restare a palazzo Chigi ed è difficile che accetti di tornarci senza essere passato prima da nuove elezioni.
La prima ipotesi è quella auspicata da molti ma, eccetto la Lega, tutti gli altri chiedono che si voti soltanto dopo aver modificato la legge elettorale. Ma per farlo, potrebbe essere necessario un nuovo governo e si arriva quindi alla terza ipotesi.

Per capire questo punto però, dobbiamo fare un passo indietro. La legge elettorale è il meccanismo con cui i voti vengono tramutati in seggi parlamentari. Oggi la Camera e il Senato si ritrovano, a seguito di varie vicissitudini, con due leggi molto diverse. E questo, in caso di nuove elezioni, potrebbe rappresentare un problema serio perché ci ritroveremmo con un parlamento in cui non si riesce a trovare una maggioranza in entrambe le camere che voti la fiducia al governo.
Vediamo cosa succederebbe se andassimo a votare in questo momento. Secondo i sondaggi, lo spettro politico è diviso in tre poli, tutti intorno al 30% dei consensi: il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e un polo di centrodestra suddiviso tra Forza Italia e Lega. Questo status quo, alla Camera verrebbe tradotto in seggi dall’Italicum, in base al quale il partito che arriva primo (in un unico turno o con un ballottaggio) conquista il 55% dei seggi. Il resto va a tutti i partiti di opposizione, a patto che abbiano superato la soglia del 3% dei voti.
Al Senato, è invece in vigore il cosiddetto Consultellum, ossia la legge con cui si è votato alle ultime elezioni politiche così come è stata modificata dalla corte costituzionale. In base a questo sistema elettorale, la percentuale di seggi che ogni partito ottiene è esattamente la percentuale di voti presi alle elezioni, a patto che abbia superato la soglia di sbarramento dell’8%. L’effetto combinato di queste due leggi elettorali e dell’attuale distribuzione del consenso fra i partiti sarebbe quello di dare alla forza politica che prende più voti la maggioranza alla camera, mentre dovrebbe cercarsi degli alleati di governo al senato. Il risultato è un rischio paralisi: se vincesse il Movimento 5 Stelle, sappiamo che non vuole fare alleanze con nessuno; ma anche se fosse il Partito Democratico ad uscire vincente dalle urne, dovrebbe allearsi con Forza Italia e con un altro partito, ma nessun altro sarebbe disposto ad entrare in una coalizione simile stando alle posizioni attuali. Lo stesso vale se dovesse vincere un’eventuale coalizione di centrodestra.
Questo ci fa capire perché Mattarella, come è emerso nelle ultime ore, non è disposto a sciogliere le camere con l’attuale sistema elettorale. Tanto più che la corte costituzionale si esprimerà il prossimo 24 gennaio sull’Italicum, la legge vigente alla Camera, e potrebbe apportarvi delle modifiche consistenti.

Dunque, cosa succederà adesso? Nelle prossime ore, il presidente Mattarella terrà una serie di consultazioni con i gruppi parlamentari per verificare la loro disponibilità a dare vita ad un nuovo governo. Come dicevamo, l’esito più probabile è la nascita di un nuovo esecutivo senza Renzi, ma sostenuto dalla sua stessa maggioranza, quindi dal Pd, dal Nuovo Centro Destra di Alfano e dai gruppi centristi come l’Udc di Casini, oltre che dall’incognita di Ala di Verdini.
Chi potrebbe guidare il nuovo governo? Sono 5 i nomi che passano di bocca in bocca in questi momenti: quello di Piero Grasso, l’attuale presidente del senato; quello di Pier Carlo Padoan, il ministro dell’economia uscente; quello di Dario Franceschini, ministro della cultura; quello di Paolo Gentiloni, ministro degli esteri e quello di Graziano Delrio, ministro delle infrastrutture.

Sui compiti e sulla durata del nuovo esecutivo, sarà tutto da vedere. Di sicuro, la sua priorità sarà quella di dare al paese una nuova legge elettorale che garantisca un minimo di stabilità dopo le prossime elezioni politiche. Sulla sua durata, va considerato che la prossima primavera vedrà due appuntamenti importanti che richiedono un governo nel pieno dei suoi poteri: a fine marzo ci saranno le celebrazioni del Trattato di Roma che ha istituito la Comunità Europea e a fine maggio si terrà il G7 a Taormina. Inoltre, i parlamentari alla prima legislatura potrebbero essere restii a consentire elezioni anticipate prima della metà di settembre, quando acquisiranno il diritto alla pensione. Quindi le prossime elezioni si terranno con buona probabilità nell’autunno 2017 o all’inizio del 2018.

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C’è chi dice, con una provocazione, che alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti dovrebbero poter votare tutti i cittadini del mondo. Questo perché le decisioni che prende il presidente della maggiore superpotenza economica e politica non possono che influenzare il resto del globo. Vale ancora di più quest’anno, dato che i candidati hanno visioni del mondo radicalmente diverse.

Il candidato repubblicano

Come sapete, la politica americana è monopolizzata da due grandi partiti, il partito repubblicano e quello democratico. Questi due partiti, nei mesi precedenti alle elezioni, organizzano delle primarie regolate per legge per scegliere i loro candidati alla Casa Bianca. In questa occasione, le primarie repubblicane sono state molto partecipate. C’era Jeb Bush, figlio e fratello di due ex presidenti; c’era Marco Rubio, il candidato di origine latino-americana; c’era Ted Cruz, un senatore su posizioni molto conservatrici e c’era Donald Trump, che a sorpresa ha stravinto la corsa repubblicana. Ma chi è Donald Trump?

Donald Trump è un imprenditore immobiliare celebre per i suoi hotel, casinò e grattacieli sparsi per l’America, come la Trump Tower a Manhattan dove ha presentato la sua candidatura. È diventato conosciuto al grande pubblico anche per essere l’organizzatore di Miss Usa e Miss Universo e il protagonista del reality show The Apprentice, dove ricopre il ruolo del giudice esigente e severo di alcuni aspiranti imprenditori. Inoltre, ha fatto numerose apparizioni sia nel cinema che in televisione. Di Trump si devono menzionare anche alcune grane con la giustizia e diverse bancherotte, oltre ad alcune recenti indagini sui finanziamenti della fondazione benefica intitolata a suo nome, che sarebbero stati usati per scopi personali e per pagare un procuratore al fine di far chiudere un’indagine a suo carico.

La candidatura di Donald Trump è stata inizialmente presa poco sul serio, sia per il personaggio, sia perché altre volte aveva detto di voler correre per la Casa Bianca per poi ritirarsi. Ma presto si è capito che non stava affatto scherzando. Fin da subito ha attirato le attenzioni dei media per le sue posizioni estremiste sull’immigrazione, le tasse e il terrorismo, in base alle quali viene spesso definito un populista. Ripetendo lo slogan “make America great again” (“fare l’America di nuovo grande”) ha promesso di costruire un muro lungo la frontiera sud e di farlo pagare al Messico, ha chiamato i messicani stupratori, ha detto di voler cacciare tutte le persone di religione islamica dal paese, si è preso gioco di un giornalista disabile, ha insultato la famiglia di un soldato morto in guerra e ha detto che Obama è il fondatore dell’Isis. Ciononostante, i suoi consensi non hanno fatto che aumentare grazie alle sue promesse di combattere l’immigrazione, usare le maniere forti contro il terrorismo e cambiare i trattati sul libero scambio, per ridare ai lavoratori americani le occupazioni perse con la globalizzazione.

Insomma, la sua è una figura controversa, che una buona parte della popolazione vede in modo sfavorevole e divide il suo stesso partito. Tuttavia, è riuscito a raccogliere molti sostenitori essendosi presentato come un candidato anti-establishment e portatore di cambiamento, l’unico a dire le cose come stanno e a battersi contro il politicamente corretto. Le fasce demografiche fra cui Trump proprio non riesce a sfondare sono quelle dei neri e dei latino-americani e anche fra le donne e i giovani fatica ad affermarsi. Il suo bacino di voti è composto prevalentemente dai maschi bianchi della classe lavoratrice, che negli ultimi anni hanno perso il lavoro o si sono impoveriti a causa, secondo loro, della globalizzazione e dell’immigrazione.

La candidata democratica

Dall’altra parte, le primarie democratiche sono state invece una corsa a due e molto meno scontata. A sfidare Hillary Clinton si è fatto avanti un anonimo senatore ultrasettantenne che si definisce addirittura socialista, praticamente un tabù negli Stati Uniti. Ma spiegando di definirsi così per le sue posizioni a favore di una democrazia di tipo scandinavo, con uno stato sociale avanzato, l’università gratuita e la sanità per tutti, è riuscito a riscuotere l’entusiasmo di molti elettori, specie di giovane età. Bernie Sanders – questo il suo nome – si è proposto come un candidato di rinnovamento, impegnato a combattere contro lo strapotere di Wall Street e contro le disuguaglianze economiche. Dopo aver ottenuto molti più voti di quanti gli osservatori avevano previsto, ha però poi dovuto ammettere la sconfitta per mano dell’avversaria, Hillary Clinton, la prima donna candidata alla Casa Bianca dai due maggiori partiti americani.

Hillary Rodham Clinton nasce nel 1947 a Chicago in una famiglia di tendenze conservatrici. Compie studi in scienze politiche e in legge e si interessa di politica fin dagli anni dell’università a Yale, dove incontra il futuro marito Bill. Alterna il lavoro da avvocato impegnato nel sociale con l’attività politica portata avanti insieme al marito, che diventa prima governatore dello stato dell’Arkansas e poi presidente degli Stati Uniti nel 1993. Da First Lady, Hillary Clinton svolge un ruolo molto importante nel supportare l’attività del consorte e, quando lui conclude il suo mandato, si candida e conquista il seggio da senatore per lo stato di New York. Nel 2008 si presenta alle primarie democratiche ma perde contro Barack Obama, di cui diventa poi segretario di stato, cioè l’equivalente americano del nostro ministro degli esteri.

In questa veste, è coinvolta nei due principali scandali che oggi le vengono rinfacciati dai repubblicani. Il primo è l’attacco all’ambasciata americana a Bengazi in Libia nel 2012, finito con due morti tra cui l’ambasciatore Usa, per cui viene accusata di non aver garantito le necessarie misure di sicurezza. Il secondo è lo scandalo, scoppiato più recentemente, delle e-mail. In questo caso, la Clinton è biasimata per aver usato un account di posta elettronica privato per il lavoro, comprese le comunicazioni top segret. Nonostante ciò fosse legale, quando gli è stato chiesto di consegnare le mail per poterle archiviare come da prassi, lei ha detto di avere anche la posta personale su quell’account così, prima di consegnare il suo contenuto, ha eliminato circa la metà delle mail.

Benché questi non siano esattamente scandali che fanno perdere un’elezione, specie se confrontati con quelli dell’avversario, hanno intaccato l’immagine che la Clinton tenta di dare di sé, come di una candidata competente e affidabile. Inoltre, le reticenze e in certi casi le bugie che hanno accompagnato questi episodi hanno rafforzato la convinzione di una parte dell’opinione pubblica americana che la Clinton sia una persona calcolatrice, disposta a mentire e a cambiare le sue idee a seconda della convenienza. I decenni che ha passato sotto i riflettori hanno inoltre contribuito a logorare la sua immagine e a farla apparire agli occhi degli elettori come una rappresentante dell’establishment e dei poteri forti, anche a causa della rete di relazioni costruita con la Fondazione Clinton. Inoltre, come ha ammesso lei stessa, non è esattamente un animale politico, in pubblico appare fredda e distaccata e questo le impedisce di far breccia nei cuori di molti potenziali elettori.

La corsa alla Casa Bianca

Se Donald Trump sembra un candidato troppo estremista per poter vincere, la sua debolezza è compensata da quella di Hillary Clinton. Secondo un recente sondaggio del Washington Post, entrambi i contendenti attirano un giudizio negativo da parte del 60% della popolazione. E questa è l’unica cosa che hanno in comune. In un sistema politico dove di solito i candidati, essendo soltanto due, tendono a convergere al centro, questa volta si scontrano due personaggi molto diversi e due visioni del mondo radicalmente contrapposte. Da una parte abbiamo una figura affidabile e competente e una potenziale prima donna presidente, ma che viene percepita come l’espressione di una classe dirigente che non riesce a risolvere i problemi. Dall’altra, troviamo un uomo che dice di battersi contro un sistema truccato e promette di fare l’America di nuovo grande, ma che usa toni violenti, non rispetta le minoranze e apprezza leader autoritari come il russo Putin.

Per fare delle previsioni sull’esito di queste elezioni, bisogna ricordare che il voto per la presidenza degli Stati Uniti non è diretto, ma avviene su base statale. Ciascuno dei 50 stati americani elegge i propri grandi elettori, il cui numero è calcolato in proporzione alla loro popolazione. Saranno poi loro a votare per il presidente secondo l’indicazione di voto data dallo stato di appartenenza. Nella quasi totalità dei casi, il candidato che vince in uno stato si assicura così tutti i suoi grandi elettori. Il totale è 538 grandi elettori, ne servono quindi 270 per vincere.

Bisogna anche sapere che un grande numero di stati vota sempre per l’uno o per l’altro partito. Per esempio, la California e gli stati del nord-est sono tradizionalmente democratici, mentre gli stati del profondo sud come il Texas votano repubblicano. Ci sono poi i “swing states”, cioè gli stati in bilico, quelli che di fatto decidono chi vince e chi perde. Sono una decina e alcuni cambiano nel corso del tempo. Quelli da tenere d’occhio quest’anno, perché sono tradizionalmente in bilico e perché regalano al vincitore un consistente numero di grandi elettori, sono la Florida, l’Ohio e la Pennsylvania.

Ma l’8 novembre non sarà eletto soltanto il 45° presidente degli Stati Uniti. I cittadini americani saranno chiamati a scegliere anche i membri della camera e di una parte del senato. È importante ricordarlo perché in America il presidente può dover convivere con un congresso di un diverso colore politico. Tutt’oggi il democratico Obama deve collaborare con un congresso dove entrambe le camere sono a maggioranza repubblicana. Dopo l’8 novembre, secondo le previsioni, la camera rimarrà saldamente in mano ai repubblicani, mentre i democratici hanno qualche chance di conquistare il senato.

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Il prossimo autunno tutti i cittadini italiani maggiorenni saranno chiamati alle urne per dire la loro sulla riforma della Costituzione fatta dal governo Renzi. Il parlamento ha dato il suo via libera lo scorso aprile, ma non avendo raggiunto i due terzi dei voti come previsto in questi casi, l’ultima parola spetta ai cittadini.

La Costituzione è la legge fondamentale dello stato, ciò significa che non solo deve essere rispettata da tutti i cittadini, ma anche che tutte le altre leggi che vengono quotidianamente approvate dal parlamento non possono essere in contrasto con essa.

La riforma di Boschi e Renzi modifica solo la seconda parte della carta costituzionale, cioè quella che tratta l’organizzazione dello stato, mentre la prima parte, sui diritti e doveri dei cittadini, rimane praticamente intatta.

Attenzione perché in questo caso, a differenza di quanto previsto per i referendum abrogativi, non c’è quorum, quindi il risultato del voto sarà valido in ogni caso, che voti il 10 oppure il 90% degli aventi diritto.

Vediamo ora cosa prevede la riforma e quali sono le ragioni dei favorevoli e dei contrari.

 

CAPITOLO 1 – LA RIFORMA

 

Il senato. Il cambiamento più importante che viene apportato alla costituzione riguarda il Senato. Oggi in Italia vige il cosiddetto bicameralismo perfetto o paritario. Ciò significa che la Camera e il Senato hanno gli stessi poteri e le stesse funzioni. La riforma prevede invece che il Senato rappresenti le istituzioni locali e abbia una composizione e delle funzioni diverse da quelle di oggi. Innanzitutto, il nuovo senato sarà composto da 100 membri (rispetto ai 315 attuali): 74 consiglieri regionali, scelti in base alla loro elezioni, 21 sindaci selezionati sempre dalle regioni e 5 personalità nominate dal presidente della repubblica “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. I rappresentanti delle regioni e i sindaci rimarranno in carica per la durata dei consigli regionali che li hanno eletti, mentre il mandato dei senatori scelti dal capo dello stato durerà 7 anni. Un’importante novità è che i senatori non riceveranno alcuna indennità, se non quella percepita come consiglieri regionali o come sindaci.

 

Anche il ruolo del Senato nel processo legislativo cambia radicalmente. Oggi, tutte le proposte di legge devono essere discusse e votate da entrambe le camere e, se una apporta delle modifiche, il testo deve tornare all’altra camera per essere approvato nello stessa identica formulazione. Questo procedimento è conosciuto con il nome di “navetta”. La riforma prevede che la navetta rimanga soltanto per le leggi che modificano o attuano la Costituzione e per quelle legate ai rapporti con gli enti locali o l’Unione Europea. Per tutte le altre, il potere decisionale spetterà alla sola Camera dei deputati, mentre il Senato svolgerà un ruolo principalmente consultivo. In che modo? Per ogni nuova legge approvata dalla Camera, un terzo dei senatori potrà chiedere che sia esaminata anche dal senato, che avrà 30 giorni per farlo. E se decide di proporre delle modifiche, il testo torna alla Camera per il voto definitivo.

Ci sono in realtà dei casi particolari: ad esempio, per le materie di interesse regionale, la legge viene trasmessa automaticamente al senato e, se esso propone delle modifiche a maggioranza dei suoi componenti, la Camera le può respingere solo con lo stesso tipo di maggioranza. Ci sono poi la legge di bilancio, i cui termini per la discussione in senato si riducono a 15 giorni, e altre materie la cui competenza è esclusivamente della Camera.

 

Il governo. Un’altra parte della riforma riguarda il governo. A partire dall’atto che ne sancisce l’insediamento, cioè la fiducia da parte del parlamento, che non sarà più data da entrambe le camere ma soltanto dalla Camera dei deputati. Inoltre, la riforma prevede alcuni limiti ai decreti legge, cioè quegli atti che l’esecutivo può emanare in casi di urgenza e hanno forza di legge, anche se devono essere poi confermati dal parlamento. D’altro canto però viene prevista una corsia preferenziale in parlamento per i disegni di legge che il governo giudica urgenti. La Camera avrà 5 giorni per dire se condivide l’urgenza e poi altri 70 giorni per deliberare.

 

I rapporti stato-regioni. La riforma del governo Renzi mette mano anche alla distribuzione dei poteri fra stato e regioni, il famoso Titolo V della Costituzione, che è già stato modificato con un’altra riforma e un altro referendum costituzionale nel 2001. In quella occasione, si conferì alle regioni il potere di legiferare in molti settori, stabilendo quali materie fossero di competenza statale, su quali vi fosse una competenza concorrente e lasciando tutte le altre materie alle regioni. La competenza concorrente, in base alla quale allo stato spetta stabilire i principi generali mentre poi la regione deve disciplinare in modo più specifico, ha sempre creato dei conflitti fra lo stato e le regioni su chi dovesse decidere cosa. Così la riforma prova a risolvere questo problema, abolendo la competenza concorrente e distribuendo le diverse materie fra l’uno e le altre. Inoltre, lo stato si riprende alcune competenze, come quelle sull’energia, sul commercio con l’estero e sulle grandi infrastrutture, mentre alle regioni rimangono principalmente la sanità, la pianificazione del proprio territorio e lo sviluppo economico locale. Viene inoltre introdotta una clausola per la quale lo stato può riservarsi di decidere su materie di competenza regionale se c’è in ballo l’interesse nazionale. Infine, viene stabilito un tetto agli emolumenti del presidente e dei consiglieri regionali pari allo stipendio del sindaco del capoluogo, oltre a venire vietati i rimborsi spese ai gruppi consiliari, il cui uso spregiudicato degli ultimi anni ha attirato le attenzioni della magistratura.

 

Gli altri punti. Vediamo in breve altri punti della riforma.

– Vengono apportati dei cambiamenti agli strumenti di democrazia diretta. Le leggi di iniziativa popolare, per essere presentate, avranno bisogno di 150 mila firme invece delle attuali 50 mila. I referendum abrogativi, se saranno promossi con 800 mila firme invece delle solite 500 mila, potranno godere di un quorum più basso di quello normale: non più il 50% degli aventi diritto, ma il 50% dei votanti alle ultime elezioni politiche. Inoltre si fa riferimento a referendum propositivi e consultivi, che però dovranno essere disciplinati con un’ulteriore legge costituzionale.

– Viene in parte cambiato il modo in cui si elegge il presidente della Repubblica. Fino ad ora Camera e Senato si riunivano in seduta comune insieme a 58 delegati regionali. Con la riforma, le regioni non avrebbero più i loro delegati, in quanto sarebbero rappresentate dagli stessi senatori. Cambia anche la maggioranza richiesta per l’elezione. Fino ad oggi, erano richiesti i 2/3 dei componenti per i primi 3 scrutini e la metà più uno dei componenti per i successivi. Con la riforma rimangono i 2/3 dei componenti fino al terzo scrutinio, che poi diventano 3/5 dei componenti dal 4° al 6° e 3/5 dei votanti dal 7° in poi.

– Viene previsto un giudizio preventivo della corte costituzionale sulla legge elettorale prima della sua promulgazione, se lo richiedono un quarto dei deputati o un terzo dei senatori.

– Vengono aboliti il Cnel e le province. Il Cnel è un organo consultivo composto da rappresentanti delle parti sociali ed esperti che ha il potere, peraltro mai esercitato, di iniziativa legislativa. Questo organismo fu creato insieme alla costituzione, appena dopo la guerra, per riprendere un po’ il ruolo della Camera dei fasci e delle corporazioni. Tuttavia, non ha mai svolto un ruolo effettivo e quindi da molto tempo si voleva abolirlo. Per quanto riguarda le province, di fatto non si votano più da alcuni anni e ora le si abolisce del tutto.

 

CAPITOLO 2 – PRO E CONTRO

 

La campagna per il referendum di questo autunno è condotta dai comitati per il SÌ e quelli per il NO.

A favore della riforma, si sono schierati naturalmente i partiti che l’hanno votata in parlamento: il Partito Democratico, Ncd e Ala di Verdini. La minoranza del Pd è però poco convinta, perché avrebbe preferito che i senatori fossero eletti direttamente dai cittadini. Ai partiti si sono aggiunti 184 accademici che hanno firmato un documento a sostegno della riforma.

Sul fronte del no, troviamo invece i partiti di opposizione: Movimento 5 Stelle, Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana. Un gruppo di 56 accademici, in questo caso tutti costituzionalisti tra cui diversi ex giudici della corte costituzionale, hanno sottoscritto una lettera per esprimere i motivi del loro dissenso.

 

Le ragioni di merito. Ma veniamo alle ragioni sostenute dalle due parti, iniziando dal merito della riforma. Tra i favorevoli, si sostiene che la carta costituzionale abbia bisogno di un aggiornamento, fermi restando i principi di base, che rimangono immutati. È da 30 anni che si creano commissioni parlamentari con questo intento, le quali si pongono come priorità proprio quelle di superare il bicameralismo paritario, con il meccanismo della navetta, e di aggiustare il Titolo V sui rapporti fra stato e regioni.

Dalla parte dei contrari, molti condividono la necessità di superare il bicameralismo paritario ma non in questo modo. Infatti, si sostiene che il progetto del governo rischi di complicare il procedimento legislativo invece di semplificarlo, proprio per le numerose modalità in cui può svolgersi, con tutte le eccezioni e i casi particolari che sono stati previsti. Inoltre, si teme che il nuovo senato non riuscirà a perseguire il suo principale obiettivo, cioè quello di rappresentare efficacemente le regioni, a causa di come è disegnato. Altri affermano che i senatori avranno ancora troppi poteri per essere rappresentanti non eletti direttamente dai cittadini.

Il fronte del sì respinge queste argomentazioni, aggiungendo che la riforma permetterà di approvare le leggi più rapidamente e di risparmiare alcune centinaia di milioni di euro dall’eliminazione dell’indennità dei senatori (cioè la parte principale del loro stipendio), dall’abolizione del Cnel e delle province, dal tetto ai compensi dei consiglieri regionali e dalla soppressione dei finanziamenti ai gruppi consiliari.

I contrari alla riforma ribattono che l’Italia ha già più leggi di molti altri paesi europei e che i risparmi saranno inferiori, nell’ordine di poche decine di milioni, un euro a cittadino o poco più, ed inoltre quando si parla di istituzioni che fanno funzionare la democrazia, non si dovrebbe ragionare in termini di costi monetari.

 

Le ragioni di metodo. Venendo al metodo con cui la riforma è stata approvata, i contrari affermano che il governo ha sbagliato a farsi promotore del cambiamento della Costituzione, dato che questo è un compito tradizionalmente riservato al parlamento. Inoltre, la riforma è stata approvata dalla sola maggioranza di governo, senza accordi con le opposizioni.

I favorevoli rispondono che non è scritto da nessuna parte che il governo non possa occuparsi della Costituzione ed inoltre si è provato a coinvolgere le opposizioni ma queste hanno fatto delle barricate. In particolare, Forza Italia aveva votato la prima versione della riforma, salvo poi cambiare idea per motivi non legati al suo contenuto.

Dal fronte del no, una delle principali critiche riguarda la trasformazione del referendum in un plebiscito sulla figura di Matteo Renzi, dato che il premier ha pubblicamente annunciato che si dimetterà in caso di sconfitta.

 

Le ragioni politiche. Ci sono infine delle ragioni politiche che dividono i due fronti. Dalle file del no, si alzano alcune voci che evocano addirittura un rischio di autoritarismo. Certo, non tutti i contrari alla riforma condividono questo allarme, però viene comunque riconosciuto un danno all’equilibrio dei poteri, generato dall’effetto combinato di questa riforma e delle nuova legge elettorale. Infatti, il cosiddetto Italicum darà il controllo della Camera all’unico partito vincitore delle elezioni, anche se questo avrà ottenuto solo il 20-25% dei voti al primo turno. In più, con la riforma costituzionale, non ci sarà più nemmeno un senato in grado di garantire un giusto contrappeso. Il risultato, secondo il fronte del no, sarà un accentramento dei poteri nelle mani del governo.

I sostenitori del sì ribadiscono che il referendum è sulla riforma costituzionale e non su quella elettorale e comunque, a loro avviso, parlare di rischio di autoritarismo è assurdo, poiché nelle democrazie moderne esistono tutta una serie di contrappesi, come il presidente della repubblica e la corte costituzionale.

 

CONCLUSIONE

 

Come abbiamo detto, la Costituzione è la legge fondamentale di uno stato. Contiene i diritti e i doveri dei cittadini e stabilisce quali istituzioni servono per far funzionare la democrazia. Per questo, il referendum è così importante. E per questo, è così importante andare a votare.

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FUNZIONI DELLE CAMERE

  • equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza
  • previste funzioni diverse per le due camere
    • Camera dei deputati
      • rappresenta la nazione
      • dà la fiducia al governo
      • indirizzo politico
      • funzione legislativa
      • controllo sul governo
    • Senato
      • rappresenta le istituzioni territoriali
      • raccordo tra lo stato e gli enti locali
      • concorre nella funzione legislativa e nel raccordo tra stato, enti locali e Unione Europea
      • partecipa alle decisioni in ambito del diritto Ue
      • valuta l’attività della pubblica amministrazione e l’impatto delle politiche Ue sui territori
      • dà pareri su nomine governative
      • verifica l’attuazione delle leggi
  • parlamentari
    • dovere di tutti i parlamentari di partecipare ai lavori
    • indennità solo ai deputati
    • si rimanda al regolamento della Camera la previsione dei diritti delle minoranze parlamentari e la formulazione di uno statuto delle opposizioni

 

COMPOSIZIONE DEL SENATO

  • 95 senatori rappresentativi delle regioni (74 consiglieri regionali + 21 sindaci) + 5 nominati dal Presidente della Repubblica + gli ex capi di stato + i senatori a vita attuali
  • ogni regione sceglie il proprio gruppo di rappresentanti tra i propri componenti più un sindaco per ciascuna regione
  • il metodo di elezione in consiglio regionale è proporzionale e “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, inoltre ”i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”
  • il numero di senatori per regione è proporzionale alla popolazione ma con un minimo di 2 ciascuna
  • la durata in carica dei rappresentanti delle regioni è uguale a quella del proprio consiglio regionale
  • il presidente della repubblica nomina i propri senatori per meriti in “campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, la loro durata in carica è 7 anni non rinnovabili

 

FUNZIONE LEGISLATIVA

  • competenza concorrente tra le due camere
    • leggi di revisione della costituzione e leggi costituzionali
    • leggi di attuazione della costituzione riguardanti:
      • tutela delle minoranze linguistiche
      • i referendum popolari e le altre forme di consultazione
      • legge elettorale
      • funzioni del governo
      • comuni
      • partecipazione dell’Italia all’Ue
      • leggi su incadidabilità e inelleggibilità dei senatori
      • autonomia regioni a statuto speciale
      • accordi fatti dalle regioni
      • risorse per enti locali
      • altre leggi riguardanti gli enti locali
  • tutte le altre leggi la competenza è esclusiva della camera
  • ogni nuova legge può essere esaminata dal Senato se 1/3 dei suoi componenti ne fa richiesta
  • in questo caso, il Senato ha 30 giorni per proporre modifiche, poi si esprime la Camera votando in modo definitivo
  • eccezioni
    • leggi dello stato che intervengono in materie regionali per interesse nazionale: l’esame del senato è automatico ed entro 10 giorni. Se il Senato propone modifiche a maggioranza assoluta, la Camera può respingerle solo a maggioranza assoluta a sua volta
    • legge di bilancio: il senato può proporre modifiche entro 15 giorni
    • solo la Camera autorizza stato di guerra, amnistia e indulto, rattifica trattati internazionali (tranne quelli che riguardano l’Ue, che devono essere approvati da entrambe la camere)
    • fiducia e sfiducia al Governo attribuite solo dalla Camera
    • autorizzazione per il tribunale dei ministri attribuita solo dalla Camera
  • i presidenti delle camere decidono sui conflitti di competenze
  • il Senato può svolgere attività conoscitive ed esprimere osservazioni sugli atti all’esame della Camera
  • il Senato può creare commissioni d’inchiesta solo su materie che riguardano le autonomie territoriali

 

INIZIATIVA LEGISLATIVA

  • il Senato può chiedere, a maggioranza assoluta, alla Camera di esaminare una proposta di legge, entro 6 mesi dalla sua presentazione
  • leggi di iniziativa popolare: sono necessarie 150mila firme e rimando ai regolamenti parlamentari su forme e tempi dell’esame da parte del Parlamento
  • rimando a legge costituzionale che crei referendum propositivi e consultivi

 

PRIORITÀ LEGISLATIVA

  • per proposte che ritiene urgenti, il Governo può chiedere alla Camera procedure veloci, da votare entro 5 giorni
  • se la Camera accetta, deve deliberare a riguardo entro 70 giorni
  • i tempi per l’eventuale esame del Senato sono ridotti a metà
  • sono escluse le proposte di legge su cui c’è competenza concorrente col Senato, materia elettorale, rattifica di trattati internazionali, amnistia e indulto, leggi di bilancio

 

PARERE PREVENTIVO DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULLA LEGGE ELETTORALE

  • le leggi che disciplinano l’elezione dei parlamentari possono essere, prima della promulgazione, mandate alla Corte Costituzionale per un “giudizio preventivo di legittimità costituzionale”, se lo richiedono 1/4 dei deputati o 1/3 dei senatori entro 10 giorni dall’approvazione della legge
  • la corte si deve pronunciare entro 30 giorni

 

RINVIO DELLE LEGGI DA PARTE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

  • se si tratta di un decreto legge, il termine per la conversione viene differito di 30 giorni

 

REFERENDUM

  • con 800 mila firme, il quorum si abbassa alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della camera
  • rimando a successiva legge costituzionale per l’introduzione di referendum popolari propositivi e d’indirizzo

 

DECRETI LEGGE

  • non possono essere usati per: materia elettorale (tranne disciplina delle elezioni), rattifica di trattati internazionali, amnistia e indulto, leggi di bilancio
  • no reiterazioni
  • no ripristino di leggi dichiarate incostituzionali dalla Corte Costituzionale per vizi sostanziali
  • oggetto: “i decreti recano misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”
  • esame del Senato: disposto entro 30 giorni dalla presentazione alla Camera, proposte di modifica in 10 giorni (tutta la procedura non oltre i 40 giorni)

 

ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

  • è indetta dal Presidente del Senato
  • non più previsti i delegati regionali
  • per i primi 3 scrutini: maggioranza dei 2/3 dell’assemblea; dal 4°: 3/5 dell’assemblea; dal 7°: 3/5 dei votanti
  • in caso il presidente della Camera stia svolgendo le funzioni del Presidente della Repubblica, presiede la seduta il Presidente del Senato

 

PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

  • nel caso non possa adempiere le sue funzioni, gli subentra il Presidente della Camera
  • lo scioglimento del Parlamento riguarda solo camera dei deputati

 

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

  • aggiunto il valore della trasparenza

 

CNEL

  • soppresso l’articolo a riguardo

 

PROVINCE

  • aboliti i riferimenti

 

COMPETENZE STATO-REGIONI

  • eliminazione della competenza concorrente
  • aggiute nuove competenze per lo stato
  • elencazione delle materie di competenza regionale (prima avevano competenza residuale)
    • riassunto: tutela delle minoranze linguistiche, pianificazione territorio e mobilità, infrastrutture, sanità, servizi alle imprese e formazione professionale, diritto allo studio, tutela del paesaggio, turismo, controllo finanziario degli enti al suo interno
    • attuazione accordi internazionali e normativa Ue
    • subentro dello stato in caso di interesse nazionale
  • per gli enti locali, inseriti i principi di semplificazione e trasparenza e i criteri di efficienza e responsabilità degli amministratori
  • la legge stabilisce indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno per l’efficienza
  • il Governo può subentrare agli amministratori locali in caso di grave dissesto finanziario, sentito il Senato (il cui parere deve arrivare entro 15 giorni)
  • anche lo scioglimento della presidenza e del Consiglio regionale prevede il parere del Senato
  • per il Presidente della regione, la Giunta e i consiglieri viene previsto un tetto agli emolumenti, con limite pari a quelli del sindaco del capoluogo
  • la legge promuove l’equilibrio di genere nella rappresentanza

 

ELEZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

  • i 5 giudici prima eletti dal parlamento in seduta comune, ora sono eletti 3 dalla Camera e 2 dal Senato

 

DISPOSIZIONI FINALI

  • soppressione Cnel
  • no ai rimborsi “o analoghi trasferimenti monetari” ai gruppi politici presenti nei consigli regionali

 

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amministrative 2016

Domenica 5 giugno, dalle 7 alle 23 (dalle 8 alle 22 in Friuli), saranno aperti i seggi elettorali in circa 1350 comuni per il rinnovo dei consigli comunali e l’elezione dei nuovi sindaci. Gli eventuali ballottaggi si terranno due settimane dopo, domenica 19 giugno. Saranno chiamati alle urne 13 milioni di italiani. Si voterà anche nella capitale, Roma, e in molti capoluoghi importanti come Milano, Napoli, Torino, Cagliari, Trieste e a Bolzano (dove in realtà si è già votato, essendo in una regione a statuto speciale). Il Sole 24 Ore ha calcolato che complessivamente i candidati saranno 77 mila, con il record di 41 liste a Napoli e un budget complessivo che gli eletti dovranno gestire di 55 miliardi di euro. In ogni comune possono votare tutti i residenti che siano cittadini italiani o cittadini di un altro stato dell’Unione Europea (questi ultimi solo se ne hanno fatto domanda a tempo debito).

 

COME SI VOTA

Attenzione! Queste regole valgono per le regioni a statuto ordinario. Ci potrebbero essere alcune differenze in quelle a statuto speciale.

Comuni oltre i 15.000 abitanti (10.000 in Sicilia)

Si vota su un’unica scheda, dove saranno elencati tutti i candidati sindaco e, a fianco di ciascuno, le liste che lo supportano. È possibile votare in tre modi:

  • tracciando un segno solo sul nome del candidato sindaco: in questo modo, si vota soltanto lui e nessuna delle liste collegate;
  • tracciando un segno solo sul simbolo di una lista: in questo modo, si vota sia la lista che il candidato sindaco a cui è collegata;
  • tracciando un segno sia su una lista che su un candidato sindaco non collegato ad essa (è il cosiddetto “voto disgiunto“).

Se si traccia un segno su una lista è possibile esprimere una o due preferenze scrivendo il cognome del candidato consigliere di cui si vuole agevolare l’elezione. Se però le preferenze che si vogliono assegnare sono due, devono essere di sesso diverso.

Viene eletto sindaco il candidato che raggiunge il 50% più uno dei voti validi. Se questa soglia non viene raggiunta, si terrà un secondo turno di ballottaggio, a cui accederanno i due candidati che hanno ottenuto più voti nel primo turno e da cui uscirà il vincitore. Tra i due turni, le liste il cui candidato sindaco è stato estromesso dalla corsa possono decidere di apparentarsi ad uno dei due candidati che si sfideranno al ballottaggio.

I seggi in consiglio comunale vengono assegnati in modo proporzionale (con il medoto d’Hondt). Alle liste collegate al candidato sindaco vincente viene assegnato almeno il 60% dei seggi (con un turno solo, c’è la condizione che esse devono aver raggiunto almeno il 40% dei voti validi).

 

Comuni sotto i 15.000 abitanti

Si vota su un’unica scheda, dove saranno elencati tutti i candidati sindaco e, a fianco di ciascuno, la lista che lo supporta. Si vota tracciando un segno sul candidato sindaco che si favorisce. In questo modo, verrà votata anche la lista che lo accompagna. È possibile esprimere una preferenza, scrivendo il candidato consigliere di cui si vuole agevolare l’elezione. Nei comuni sopra i 5.000 abitanti, le preferenze possono essere due, purché di sesso diverso.

Viene eletto il candidato sindaco che ha ottenuto il maggior numero di voti (è previsto il ballottaggio solo in caso di parità fra le liste più votate). Alla lista vincitrice spettano i due terzi dei seggi in consiglio comunale, mentre i posti restanti vengono distribuiti in modo proporzionale fra le altre formazioni.

Se in un comune si dovesse presentare una lista soltanto, le elezioni saranno valide solo nel caso che si rechino ai seggi il 50% più uno degli aventi diritto al voto (e che almeno la maggioranza di essi esprima un voto valido). In caso contrario, il comune verrà commissariato e si tornerà alle urne nel successivo turno elettorale.

 

Le elezioni nelle città più importanti

In generale, queste elezioni comunali segnano una certa discontinuità rispetto al passato. Le tradizionali coalizioni di centrodestra e centrosinistra, favorite fino ad oggi anche dal sistema elettorale previsto per i comuni, sembrano ora in via di smantellamento. A sinistra per esempio, in molte città di medie e grandi dimensioni, il Partito Democratico e i partiti più a sinistra correranno separati. Questo è ancora più vero per il centrodestra che, sebbene a Milano si sia presentato unito, in altri posti è spaccato a metà, con Forza Italia da una parte e Lega Nord e Fratelli d’Italia dall’altra (come succede a Roma).

Solitamente le elezioni amministrative hanno conseguenze politiche anche a livello di governo nazionale. Da sempre vengono considerate un test sull’esecutivo. Tuttavia, questa volta, il premier Renzi sembra aver riposto maggiore attenzione sul referendum sulla riforma costituzionale del prossimo autunno, attirando le critiche dell’opposizione secondo cui sta mettendo le mani avanti prevedendo una possibile sconfitta.

 

Le elezioni a Roma

La capitale sta uscendo da un periodo difficile, tra gli scandali di Mafia Capitale e il commissariamento dovuto alle dimissioni di Ignazio Marino. In questo quadro, è cominciata una campagna elettorale tutto tranne che noiosa. I sondaggi danno in vantaggio la candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi, avvocatessa scelta con le comunarie online, che dovrebbe quasi sicuramente arrivare al ballottaggio. Dietro di lei il candidato del Partito Democratico Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera ed ex radicale, che ha stravinto le primarie a marzo. Sinistra Italiana ed altri partiti della sinistra radicale corrono invece da soli, sostenendo il deputato fuoriuscito da alcuni mesi dal Pd, Stefano Fassina. Nel centrodestra invece il processo che ha portato alle elezioni non è stato così liscio. Dopo che fra Forza Italia, Lega Nord (che a Roma si chiama Noi con Salvini) e Fratelli d’Italia i tentativi di trovare una candidatura comune sono falliti, il partito di Berlusconi ha dapprima scelto di sostenere l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, per poi convergere sul candidato centrista Alfio Marchini, sostenuto anche dal Nuovo Centro Destra. Lega Nord e Fratelli d’Italia correranno insieme, portando avanti la candidatura di Giorgia Meloni. I sondaggi pubblicati prima del blackout imposto dalla legge vedono Giachetti, Marchini e Meloni giocarsi il secondo posto al primo turno.

 

Le elezioni a Milano

Nella capitale economica del paese, la situazione è più chiara e, in controtendenza rispetto a Roma e ad altre città, centrodestra e centrosinistra corrono uniti. A destra, Forza Italia, Ncd, Lega e Fratelli d’Italia sostengono Stefano Parisi, ex manager pubblico ed ex amministratore delegato di Fastweb, che nei sondaggi è appaiato al candidato di Pd e Sinistra Italiana, Giuseppe Sala, ex commissario Expo che ha vinto le primarie dello scorso febbraio. Alla sua sinistra, trova la lista Milano in Comune, composta tra gli altri da Rifondazione e Possibile, che porta avanti la candidatura di Basilio Rizzo. Il Movimento 5 Stelle, che aveva organizzato delle primarie per decidere il proprio candidato, ha inizialmente scelto Patrizia Bedori, alla cui rinuncia è subentrato Gianluca Corrado. Inizialmente aveva avanzato la propria candidatura anche l’ex amministratore delegato di Banca Intesa Corrado Passera, che però si è ritirato ed è finito per appoggiare Parisi.

 

Nelle altre città

Napoli i sondaggi danno in largo vantaggio il sindaco uscente Luigi De Magistris, ex magistrato e parlamentare europeo sostenuto da liste civiche, Sinistra Italiana e Possibile. Lo sfidano da destra il candidato di Forza Italia Gianni Lettieri e quello di Lega e Fratelli d’Italia Marcello Taglialatela e da sinistra la candidata del Pd Valeria Valente. Il Movimento 5 Stelle presenta invece Matteo Brambilla.

In vantaggio a Torino è invece il sindaco uscente del Pd Piero Fassino, la cui principale rivale sarà Chiara Appendino del M5S.

Anche a Bologna si prevede la vittoria del sindaco uscente Pd Virginio Merola, sfidato dalla candidata della Lega (ma appoggiata da tutto il centrodestra) Lucia Bergonzoni.

 

Link di approfondimento

Approfondimento sulla situazione delle città più importanti.

Programmi e articoli sui principali candidati delle città più grandi.

Elenco dei comuni al voto con relativa popolazione.

Elenco dei candidati sindaco e delle liste per ciascun comune.

Guarda il video.

I concetti di destra e sinistra rappresentano uno dei tormentoni della politica. Questi termini sono molto in voga fra chi la politica la pratica e la segue da vicino. Renzi afferma di essere di sinistra ma molti lo accusano di essere di destra. Salvini viene collocato da molti all’estrema destra. Secondo Grillo, invece, destra e sinistra non hanno più senso di esistere. Una cosa è certa: queste categorie sono cadute un po’ in disuso ultimamente e il leader dei 5 stelle non è l’unico a considerarle inutili. Per capire se questa tesi è corretta, vediamo insieme come destra e sinistra sono nate e quali significati hanno assunto nel tempo.

LA STORIA

L’uso dei concetti di destra e sinistra in politica è cominciato un po’ per caso. Siamo nel 1789, si è appena conclusa la Rivoluzione Francese e vengono inaugurati gli Stati Generali: l’assemblea di nobiltà, clero e Terzo Stato chiamata a condividere il potere col re. Nel momento di entrare nella sala della riunione, con i posti a sedere distribuiti a semicerchio, i presenti si divisero secondo le loro idee politiche: i conservatori e i difensori dell’antico regime si sedettero a destra rispetto al presidente, i rivoluzionari e i radicali a sinistra mentre al centro rimase chi non aveva una posizione precisa.

Da allora, la democrazia ha preso sempre più piede e il suffragio, cioè la parte di popolazione a cui è consentito votare, è stato progressivamente esteso. Nel frattempo, sono nati i partiti, ciascuno dei quali cerca di rappresentare una parte dell’elettorato. Nell’opinione pubblica, infatti, hanno cominciato ad emergere le prime fratture sociali, una caratteristica fondamentale di una società pluralistica. I politologi Lipset e Rokkan hanno individuato diverse divisioni sociopolitiche, che si sono succedute nel tempo per importanza: quella fra il centro e la periferia, fra stato e chiesa, fra città e campagna, fra lavoratori e datori di lavoro. I termini destra e sinistra sono serviti come contenitori concettuali di tutte queste fratture ma hanno avuto particolarmente fortuna con l’ultima: quella fra lavoratori e datori di lavoro. Infatti, da una parte c’erano i partiti di destra, schierati in difesa degli interessi degli imprenditori, e dall’altra i partiti di sinistra, volti a tutelare dipendenti e operai. Tuttavia, questa frattura sociale ha cominciato a perdere importanza già da qualche decennio, a causa dei mutamenti che hanno interessato sia la politica che l’economia.

LA TEORIA

Ma se destra e sinistra hanno assunto diversi significati nel tempo, allora come possiamo distinguerle? Norberto Bobbio, un grande filosofo italiano, ha proposto un modo per farlo. A suo avviso, ciò che in fondo differenzia destra e sinistra è il loro atteggiamento verso le disuguaglianze. Chi è di sinistra ritiene che per una buona convivenza sia più importante ciò che accomuna gli individui, mentre chi è di destra sottolinea l’importanza delle differenze. Inoltre, mentre per la sinistra le disuguaglianze sono perlopiù sociali ed eliminabili, per la destra esse sono create dalla natura e quindi non possono essere evitate. Queste posizioni non sono mai assolute: nessuno ritiene che dovremmo essere uguali in tutto o che non si debba correggere nessuna disuguaglianza, ma questa diversità di vedute si traduce nel supporto di politiche che spingono più da una parte o dall’altra.

Altri studiosi sostengono che destra e sinistra non bastino a rappresentare tutte le idee politiche e che servano altri due termini: libertà e autorità. Mentre alcuni pensano che la destra sia libertaria e la sinistra autoritaria, molti ritengono invece che si tratti di due dimensioni che si intrecciano tra loro: destra e sinistra da una parte e libertà e autorità dall’altra. Lo stesso Bobbio crede che il libertarismo rappresenti la parte moderata sia della destra che della sinistra, mentre l’autoritarimo sia il principio guida delle rispettive fazioni estremiste.

I VALORI

Storicamente, destra e sinistra sono state distinte in base ad una serie di valori, riferiti a vari aspetti della vita e della società, che vanno però interpretati come tendenze generali e non in senso assoluto:

  • rispetto alla religione, la destra è caratterizzata da un forte sentimento religioso, mentre la sinistra è laica (cioè promuove la separazione tra gli affari della fede e quelli dello stato);
  • rispetto all’economia, la destra è più incline a lasciare che sia il mercato a decidere la distribuzione delle risorse economiche, mentre la sinistra è favorevole ad un ruolo più rilevante dello stato;
  • sotto il profilo sociale, la destra è tendenzialmente dalla parte degli imprenditori e dei liberi professionisti, mentre la sinistra sta con i lavoratori dipendenti e gli operai;
  • nei rapporti fra le persone, la destra è più per la gerarchia, lo status e il merito, la sinistra per i rapporti di parità, per la giustizia e l’uguaglianza;
  • nell’atteggiamento verso la vita e nei valori personali, la destra si riconosce nella tradizione e nella conservazione, mentre la sinistra nel progresso e nel cambiamento.

NELLA PRATICA

Ma veniamo al tipo di forze politiche che sono cadute sotto queste etichette nel corso della storia. Nell’Ottocento, i temi su cui si scontrano destra e sinistra sono quelli del suffragio e dell’economia. Da una parte la destra, appoggiata dai ceti più abbienti, cerca di mantenere il voto riservato a chi detiene un certo patrimonio e spinge per la liberalizzazione dei commerci con l’estero. Dall’altra parte, la sinistra tenta di estendere il suffragio, dando maggiore potere alla popolazione più povera, e preme per un maggiore protezionismo dalla concorrenza straniera.
Nella prima parte del Novecento, emergono gli estremismi di destra e sinistra, che condividono un approccio autoritario al potere. Con la rivoluzione d’ottobre del 1917, il partito comunista instaura in Russia un regime che abolisce la proprietà privata e nazionalizza tutte le attività economiche, al fine di dare il potere alla classe lavoratrice, prima sfruttata dai detentori del capitale. Pochi anni più tardi, in paesi come Italia e Germania, salgono al potere regimi fascisti e nazionalsocialisti, che mirano a riaffermare i valori della tradizione e della patria, oltre a diffondere il culto della forza e dell’autorità.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la nascita delle democrazie moderne nell’Europa Occidentale, destra e sinistra rinascono principalmente intorno alla divisione sociale tra imprenditori e operai. A destra si formano i partiti popolari e cristiani, a sinistra quelli socialisti, socialdemocratici e comunisti. In Italia, però, abbiamo una situazione un po’ particolare, con un grande partito di centro, la Democrazia Cristiana, che governa per molti anni da sola con alleati di scarso peso. Alla sua destra c’è il Movimento Sociale, un partito di estrema destra che si richiama all’esperienza fascista. Mentre, alla sua sinistra, troviamo il partito socialista e quello comunista, con quest’ultimo che fa riferimento all’omologo sovietico.
Il panorama politico italiano si trasforma radicalmente all’inizio degli anni Novanta, con la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Da quel momento, due grandi coalizioni di centrodestra e centrosinistra si alterneranno al governo per i successivi vent’anni.
Per citare qualche partito odierno, partendo da sinistra troviamo Sinistra Italiana e il Partito Democratico, a destra abbiamo invece il Nuovo Centro Destra, Forza Italia, la Lega Nord e Fratelli d’Italia. C’è poi il Movimento 5 Stelle che però rifiuta di collocarsi su quest’asse.

CONCLUSIONE

Sebbene destra e sinistra non siano sempre state le stesse nel corso del tempo, i loro rispettivi valori fondamentali sono rimasti immutati. È vero: non è facile capire cosa siano esattamente l’una e l’altra, tuttavia sembrano aver sempre svolto un ruolo fondamentale nell’orientare l’opinione pubblica nello spazio politico. Almeno fino ad oggi. Negli ultimi anni, infatti, sono apparsi nuovi partiti, definiti da molti “populisti” per il loro stile nel far politica, che rifiutano le vecchie etichette di destra e sinistra. Tuttavia, in molti casi, le loro posizioni permettono ancora di classificarli in queste due categorie.

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Ancora in pochi lo sanno, ma il prossimo 17 aprile si terrà un referendum a cui tutti i cittadini italiani sono chiamati a partecipare. Si tratta di un referendum abrogativo su un argomento un po’ ostico che ha a che fare con l’estrazione di gas e petrolio in mare. Vediamo insieme di cosa si tratta e quali sono le ragioni di chi è favorevole e di chi è contrario.

IL QUESITO

Già da qualche anno, in Italia, sono vietate le estrazioni di gas e petrolio in mare entro le 12 miglia nautiche (ovvero 22,2 chilometri), ma è stata prevista un’eccezione per le autorizzazioni già concesse, che potranno essere estese fino a che il giacimento non sarà esaurito, compresa la possibilità di costruire nuovi impianti. Il quesito che verrà posto sulla scheda chiederà ai votanti se vogliono abrogare questa eccezione (nel qual caso occorre votare “sì”) oppure sono d’accordo nel mantenerla (mettendo quindi una croce sul “no”). Perché il risultato della consultazione sia valido occorre che votino il 50% più uno degli aventi diritto. Se ciò succederà e se vincerà il “sì”, allora le piattaforme entro le 12 miglia marine dovranno essere smantellate alla scadenza della concessione, nel giro di pochi anni. Se non si raggiungerà il quorum o se vincerà il “no”, sarà come se il referendum non si fosse nemmeno tenuto.

COME CI SIAMO ARRIVATI

Perché si è giunti a votare su un argomento così specifico? La storia di questo referendum è un percorso ad ostacoli. Nel luglio dello scorso anno, il movimento politico Possibile presenta otto quesiti referendari, di cui due sulle trivellazioni, per i quali inizia a raccogliere le 500 mila firme richieste. Tuttavia, alla fine di settembre, non riesce ad arrivare alla cifra richiesta. Al suo posto dieci regioni, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise e l’Abruzzo, che poi ritirerà il suo sostegno, presentano 6 quesiti, tutti sull’estrazione di idrocarburi in mare. In autunno però, il governo cambia la normativa vigente all’interno della Legge di Stabilità, cercando di venire incontro alle regioni, al fine di evitare la consultazione referendaria. 5 dei 6 quesiti vengono così a decadere, mentre sopravvive solo quello su cui si andrà al voto. Alcune regioni chiederanno alla Corte Costituzionale di esprimersi su un conflitto di attribuzione dei poteri con il governo, per votare su altri due quesiti esclusi, ma il ricorso sarà giudicato inammissibile per questioni formali. Infine, questo inverno, il governo ha stabilito la data della consultazione, che però non si terrà lo stesso giorno delle elezioni amministrative previste sempre per questa primavera. Molti hanno visto in questa decisione il tentativo dell’esecutivo di non far raggiungere il quorum e hanno denunciato la maggiore spesa prevista per votare in due diversi appuntamenti, che ammonta a più di 300 milioni di euro.

GAS E PETROLIO IN ITALIA

Nel territorio italiano, le concessioni rilasciate dal governo per l’estrazione di idrocarburi, quindi petrolio o gas, sono 202: 133 sulla terraferma e 69 in mare. Molte di queste autorizzazioni sono state conferite diverso tempo fa, dato che le concessioni hanno una durata iniziale di trent’anni, prorogabili una prima volta per 10 anni, poi per 5, poi ancora per altri 5 e infine finché non si è esaurito il giacimento. Per quanto riguarda le concessioni in mare, queste vedono la presenza di 79 piattaforme eroganti, di cui 48 sono interessate dal referendum in quanto entro le 12 miglia dalla costa. La maggioranza di queste estrae gas.
Nel 2015, la produzione nazionale ha coperto il 9,1% dei consumi totali di petrolio e il 10,2% di quelli di gas. Tuttavia, secondo Greenpeace, le piattaforme interessate riguardano soltanto lo 0,8% del fabbisogno di petrolio e il 3% di quello di gas. C’è anche da dire che negli ultimi anni, complice la crisi economica, i consumi di questi idrocarburi in Italia sono scesi in modo lento ma costante.
In generale, non si può certo dire che l’Italia sia un paese ricco di risorse energetiche tradizionali. Infatti, stando alle riserve esistenti alla fine del 2006, se venisse estratto tutto il petrolio presente nei nostri giacimenti coprirebbe soltanto 1 anno e 3 mesi dei consumi nazionali, 2 anni per quanto riguarda il gas naturale. Queste stime però non considerano che una buona parte di queste risorse sono impossibili da recuperare. Tolte queste, le risorse nazionali basterebbero soltanto per pochi mesi o addirittura settimane.

LE RAGIONI DEL SÌ E DEL NO

Con l’indizione del referendum, diversi attori sociali hanno cominciato a schierarsi da una parte o dall’altra.
Sul fronte del sì troviamo il Comitato No-Triv, a cui fanno riferimento diverse associazioni ambientaliste, a partire da Legambiente, Greenpeace e Wwf, ma anche partiti come il Movimento 5 Stelle, la Lega Nord, Sinistra Italiana, l’Altra Europa con Tsipras, Possibile. Troviamo anche i sindacati di base, mentre la Cgil è divisa.
Sul fronte del no, o meglio, dell’astensione (con l’obiettivo di non far raggiungere il quorum), vediamo il Partito Democratico (anche se la minoranza del partito voterà sì) e il Comitato Ottimisti e Razionali, composto da politici, esponenti del settore energetico e gente comune.
Vediamo allora le argomentazioni di queste due fazioni in lotta tra loro.

Per i sostenitori del sì, uno dei motivi principali per cui le trivelle andrebbero smantellate è quello ambientale. Un recente studio di Legambiente, realizzato sulla base di dati governativi provenienti da una trentina di impianti offshore, mostra come 3 piattaforme su 4 presentano, nei loro sedimenti marini, una contaminazione di almeno una sostanza pericolosa fra idrocarburi e metalli pesanti, alcune delle quali sono anche cancerogene. E anche le cozze pescate nelle vicinanze risultano contaminate. Ma i problemi ambientali sarebbero anche altri: gli impulsi sonori generati dagli air gun, gli strumenti usati per la scansione dei fondali al fine di rilevare i giacimenti, sono nocivi per la salute di alcuni pesci e crostacei. Inoltre, esiste il rischio di subsidenza per i fondali, ovvero di un loro progressivo sprofondamento. I fautori del sì sostengono poi che la presenza di trivelle sia negativa per il turismo.
Dalla parte del no, si contesta che i livelli di inquinamento e di danni all’ambiente non siano significativi e che gli impianti di estrazione non rappresentino un problema per il turismo, dal momento che le zone che ne vedono una presenza maggiore sono anche quelle più attrattive per i turisti. Anzi, per i sostenitori del no, ridurre la produzione nazionale di gas e petrolio aumenterebbe l’inquinamento invece di ridurlo, dato che implicherebbe l’acquisto di queste risorse dall’estero con conseguente passaggio di numerose petroliere nei nostri mari. I contrari al referendum affermano poi che questo settore dà lavoro a decine di migliaia di persone, posti di lavoro che andrebbero persi insieme alle conoscenze e professionalità acquisite dalle imprese italiane negli anni.
Tra i fautori del sì, invece, si evoca il rischio di incidenti che, sebbene non possano essere devastanti come quello del 2010 nel Golfo del Messico per via della struttura degli impianti italiani, potrebbero comunque provocare gravi danni alla fauna e alla flora marina.
I no ribattono che il rischio di incidenti sulle piattaforme di trivellazione è quasi trascurabile mentre è molto più alto per le petroliere, che sono attualmente il maggiore fattore di inquinamento del Mar Mediterraneo. I contrari al referendum sostengono inoltre che sia importante mantenere un certo livello di produzione interna di idrocarburi perché questo ci metterebbe almeno in parte al riparo dalle crisi internazionali.
Tra le fila dei sì, l’argomentazione che più viene usata per convincere gli indecisi è che un esito positivo di questo referendum darebbe un forte segnale alla politica, spingendola a dimostrare maggiore sensibilità verso i problemi ambientali e ad adottare misure per fermare il cambiamento climatico, come un più forte investimento sulle energie rinnovabili. Infatti, queste fonti di energia pulita stanno sempre più sostituendo quelle fossili: nel 2015, quasi un terzo dell’energia elettrica del nostro paese veniva prodotta da fonti rinnovabili, rappresentando il 17,3% dei consumi totali di energia (compresa quindi quella usata per muoverci e per riscaldarci), in costante aumento rispetto agli anni precedenti. Inoltre, i sostenitori del sì ricordano che, al fine di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto i due gradi, così come stabilito nella Conferenza sul Clima di Parigi, è necessario che la maggior parte delle fonti fossili rimana nel sottosuolo.
Dal canto loro, i no sono contrari all’assegnare un significato politico al referendum e, in generale, affermano che delle fonti fossili non si possa ancora fare a meno.

INFORMAZIONI PRATICHE

Le urne saranno aperte domenica 17 aprile, dalle 7 alle 23. Potranno votare tutti i cittadini italiani maggiorenni, per la prima volta anche quelli momentaneamente all’estero, tramite il voto per corrispondenza organizzato dagli uffici consolari. Gli studenti fuori sede possono usufruire di sconti speciali sui treni oppure possono votare con alcuni escamotage nella città in cui si trovano.. Per poter votare, è necessario essere muniti di carta d’identità e tessera elettorale.

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Se fino a qualche mese fa, il problema di accogliere i migranti era soltanto di Italia e Grecia, ora l’Europa si sta accorgendo che questo fenomeno coinvolge l’intero continente. E trovare una soluzione non risulta affatto semplice. Cerchiamo allora di scavare più a fondo nella questione.

LE ROTTE. Fino a qualche tempo fa, la rotta principale per giungere in Europa era quella mediterranea. I migranti partono dall’Africa subsahariana, spesso da paesi sconvolti dalla guerra come Eritrea, Niger e Somalia; raggiungono tra mille difficoltà la Libia e da qui salpano su barconi fatiscenti alla volta di Italia, Malta e Grecia. Il tutto pagando cifre molto alte e rischiando la propria vita, sia durante il tragitto in mare sia sulla terraferma, dal momento che passano per le mani di spietati trafficanti di esseri umani.

Negli ultimi mesi però, si è aggiunta un’altra rotta: quella balcanica. A percorrerla, sono soprattutto siriani e afghani che salpano dalla Turchia e raggiungono le isole greche in poco tempo, ma poi devono attraversare tutti i Balcani, passando dalla Grecia in Macedonia e poi in Serbia, dove tentano di entrare in Ungheria, il primo paese dell’Unione Europea dopo la Grecia. Da qui, grazie all’area di libera circolazione creata con gli accordi di Schengen, possono muoversi liberamente e raggiungere la loro meta, di solito l’Austria, la Germania o la Svezia. Continua a leggere

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Lo scorso 4 maggio, tra le proteste delle opposizioni e anche di parte della maggioranza di governo, è stato approvato l’Italicum. La nuova legge elettorale voluta da Renzi trasformerà radicalmente il sistema politico così come lo conosciamo oggi. Vediamo cosa prevede la nuova normativa e quali sono i suoi aspetti positivi e negativi.

La legge

In un precedente video, vi abbiamo parlato dei due tipi di sistema elettorale esistenti: proporzionale e maggioritario. L’Italicum è una via di mezzo: di base è un proporzionale ma è corretto in modo da produrre effetti maggioritari. Ma andiamo per ordine.
Il territorio nazionale, escluse Val d’Aosta e Trentino che manterranno il sistema uninominale, viene diviso in 20 circoscrizioni, che corrispondono in linea di massima alle regioni. Queste vengono poi divise ulteriormente in un totale di 100 collegi a livello nazionale. In ogni collegio, le diverse liste presenteranno dai 3 ai 9 candidati. Gli elettori troveranno sulla scheda elettorale il simbolo del partito con, alla sua sinistra, il nome del capolista bloccato, e alla sua destra, due righe per esprimere una o due preferenze tra i candidati della lista. Nel caso siano due, la seconda deve per forza essere di sesso diverso dalla prima, pena il suo annullamento. I capilista possono inoltre presentarsi in più collegi, fino a 10, per la precisione.
Ma come avviene la ripartizione dei seggi in parlamento? Il calcolo è su base nazionale e, come abbiamo detto, il procedimento è proporzionale. Tuttavia ci sono dei correttivi. Uno di questi è la soglia di sbarramento, che impedisce alle liste che hanno preso meno del 3% di ottenere dei seggi. L’altra correzione è il premio di maggioranza. Infatti, alla lista che arriva prima vengono assegnati 340 seggi (il 55% circa), a patto che essa giunga da sola al 40% dei voti. In caso contrario, si procederà ad un ballottaggio, cioè ad un secondo turno di votazioni, due settimane dopo il primo, a cui accederanno solo i due partiti più votati, senza possibilità di apparentarsi con altri come avviene a livello locale. Il vincitore otterrà il premio di maggioranza.
Un’altra caratteristica della nuova legge è la possibilità per chi si trova fuori dai confini nazionali di votare per corrispondenza nella circoscrizione estero. Lo potrà fare chi sarà fuori per almeno 3 mesi per ragioni mediche, di lavoro o di studio (come gli studenti Erasmus).
Infine, una clausola dell’Italicum prevede che esso valga solo per la Camera dei Deputati ed entri in vigore il 1° luglio 2016, poiché si presume che, entro quella data, il Senato non sarà più elettivo, per effetto della riforma costituzionale in discussione.

La genesi

Benché si parli da anni della necessità di una nuova legge elettorale, essa è divenuta indispensabile dopo che, nel dicembre 2013, la Corte Costituzionale ha bocciato il sistema precedente, il Porcellum, trasformandolo in un proporzionale quasi puro, come quello della prima repubblica. Così, il neosegretario del Pd, Matteo Renzi, nel gennaio 2014 propone tre diversi modelli di legge elettorale. Su uno di essi trova l’accordo con Berlusconi e prende vita una prima bozza dell’Italicum, sancita nel cosiddetto “Patto del Nazareno”, dal nome della piazza vicina alla sede del Pd dove si sono incontrati.
Da quella prima versione, però, la legge elettorale ha subito diverse modifiche:

  • su spinta del Nuovo Centro Destra e dei popolari, la soglia di sbarramento per accedere alla ripartizione dei seggi è stata abbassata dalle soglie molto elevate inizialmente previste al 3% di oggi. Inoltre sono state ammesse le candidature in più collegi;
  • la minoranza del Pd ha invece ottenuto un innalzamento della soglia per ottenere il premio di maggioranza al primo turno dal 35 al 40%, oltre alla norma sulla parità di genere nelle liste;
  • Forza Italia dal canto suo, dopo le batoste elettorali delle europee a maggio e delle regionali nello scorso autunno, ha dovuto cedere sul premio alla lista piuttosto che alla coalizione. Il partito di Berlusconi ha dovuto fare un passo indietro anche sulle liste bloccate, sebbene le preferenze non si possano ancora esprimere sui capilista, come avrebbe voluto parte del Pd. D’altra parte, però, per tranquillizzare Forza Italia sul fatto che non ci saranno elezioni anticipate, il premier ha concesso che l’entrata in vigore della riforma avvenga solo a metà 2016.

Pro e contro

Vediamo ora le ragioni di chi è a favore e di chi è contrario alla nuova legge elettorale.
Il presidente del Consiglio Renzi sostiene fortemente la sua riforma, affermando che essa permetterà di creare fin da subito dopo le elezioni un governo stabile, senza dover ricorrere a litigiosi governi di coalizione o larghe intese. Ciò sarà permesso dal premio di maggioranza, che assegna circa il 55% dei seggi ad un solo partito, quello più votato.
Tuttavia, i politologi osservano che, in questi casi, lo scontro che prima esisteva tra i diversi partiti di una coalizione tende a spostarsi all’interno del partito di maggioranza, portando agli stessi risultati.
Il governo è anche venuto incontro alle opposizioni, introducendo le preferenze per scegliere molti dei candidati da eleggere. Inoltre, sono state previste delle misure per assicurare la parità di genere.
Tuttavia, i capilista restano decisi dai partiti. In questo modo, è molto probabile che la maggioranza dei deputati non sarà eletta direttamente dagli elettori.
Le opposizioni hanno poi lamentato l’approvazione della legge per mezzo di voti segreti e questioni di fiducia, strumenti parlamentari che servono per forzare il dibattito in aula e che non si addicono ad una legge così delicata come quella elettorale. Tant’è che i precedenti storici del voto di fiducia su una legge elettorale risalgono al fascismo e alla cosiddetta “legge truffa”.
L’approvazione dell’Italicum solo per la Camera, invece, ha ricevuto le critiche di alcuni giuristi. Il governo infatti dà per scontato che l’elettività del Senato verrà abolita dalla riforma costituzionale. Ma, se essa non dovesse andare in porto, ci troveremmo con due camere con gli stessi poteri ma con due maggioranze diverse e questo rappresenterebbe un grave problema per la governabilità.
Per quanto riguarda l’influenza che l’Italicum avrà sul sistema dei partiti, i suoi sostenitori prevedono che col tempo il panorama politico finirà per articolarsi su due grandi partiti, un po’ come succede negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, rendendo più semplice la scelta per gli elettori e più stabile il sistema nel suo complesso.
Tuttavia, altri non sono convinti che sia questo lo scenario più probabile. Credono invece che l’Italicum porterà il sistema indietro alla prima repubblica, con un grande partito di governo al centro (in particolare, il Pd) e alcune forze politiche agli estremi, che non riusciranno mai ad arrivare al governo.
Ma la critica più pesante che viene rivolta alla nuova legge elettorale è quella di accrescere a dismisura il potere del premier, trasformando di fatto il sistema parlamentare in uno quasi presidenziale, senza prevedere gli opportuni contrappesi che questo richiede, anche considerando l’imminente abolizione del bicameralismo.

Secondo i sondaggi, la questione della legge elettorale non è considerata una priorità dagli italiani. Questa posizione è comprensibile: i cittadini si aspettano che la classe politica faccia qualcosa per uscire dalla crisi economica e dare un lavoro a chi non ce l’ha. Tuttavia, l’assetto del sistema elettorale ha un’enorme influenza sulla possibilità di formare un governo stabile e rappresentativo, che possa occuparsi in modo efficace delle più importanti urgenze economiche. Se l’Italicum possa farlo, lo scopriremo solo alle prossime elezioni.

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